Connettività e multimodalità i nuovi paradigmi logistici del “secolo cinese” – Un viaggio nel secolo dell’espansione cinese
di Giovanni Grande
“Il fischio del treno porta l’oro”, recita un detto cinese. Nel caso del primo collegamento ferroviario diretto Italia – Cina si tratta, più prosaicamente, di macchinari, mobili, prodotti in metallo, piastrelle e automobili. Merce contenuta in 34 container da 40 piedi che su 17 carri doppi ha attraversato l’Europa fino a Malaszewicze, in Polonia, e poi a Dostyk, in Russia, per puntare verso il cuore dell’Asia, nella provincia del Sichuan, destinazione Chengdu.
Quasi 11mila chilometri coperti in 19 giorni, rispetto ai 40/45 previsti dal trasferimento via mare: gli stessi che serviranno per il tragitto inverso, in direzione del Polo Logistico Intermodale di Mortara, in attesa che il servizio entri a regime a partire dal prossimo gennaio con due coppie di treni settimanali.
Terzo collegamento diretto con la Cina dall’Europa, dopo quelli da Germania e Belgio, la tratta Milano/Mortara – Chengdu lega così due regioni a vocazione manifatturiera distanti dalla costa puntando a dare una risposta, in termini relativi di costo e di tempo, alle specifiche esigenze logistiche delle rispettive supply chains. Considerata parte integrante delle future rotte terrestri della “Nuova Via della Seta” (per il 2020 sono previsti ben 20 convogli settimanali) l’attivazione della linea ferroviaria aumenta il coinvolgimento dell’Italia nel nuovo processo di globalizzazione a guida cinese e, allo stesso tempo, fa emergere in modo concreto la portata paradigmatica delle sfide legate all’ambizioso progetto lanciato da Xi Jinping nel 2013 per connettere Cina, Asia Centrale, Europa e Africa.
Partita come “New Silk Road”, aggiornamento al XXI secolo della celebre “Via della Seta” (concetto coniato nel 1877 dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen per descrivere la realtà delle rotte commerciali e carovaniere tra Mediterraneo, Asia Centrale ed Estremo Oriente attive dai tempi dell’antica Roma fino al Rinascimento), l’iniziativa di Pechino in questi pochi anni ha cambiato denominazione ufficiale da One Belt One Road (OBOR) in Belt and Road Initiative (BRI). Non una mera questione lessicale; piuttosto un aggiustamento pragmatico e progressivo a quelle che sono state individuate come le priorità strategiche del “secolo cinese”: espandere i mercati dell’export; sostenere il ribilanciamento della crescita interna; assicurare le forniture energetiche. Obiettivi da perseguire con la creazione di un network infrastrutturale fisico, digitale, finanziario e culturale. Attraverso reti considerate essenziali per impattare sul commercio internazionale in due modi: accrescere i legami già esistenti tra Paesi partner; favorire nuovi flussi commerciali tra aree non ancora direttamente collegate fra loro.
È proprio su questo terreno specifico, quello della “connettività”, che secondo Parag Khanna, autorevole stratega geopolitico di origine indiana, si misurerà la capacità dei governi di affrontare il paradigma della nuova mondializzazione a trazione cinese.
A meno di non optare (come nel caso della Brexit o del neoisolazionismo di Trump) sul ripiegamento per scelte autarchiche. Le enormi risorse finanziarie riversate nei progetti dalla combinazione “win-win” previsti dalla BRI, da questo punto di vista, candiderebbero l’ex Celeste Impero ad un sicuro ruolo egemonico.
Dalla costruzione o attivazione di nuove linee ferroviarie e marittime su tre continenti fino alla trasformazione della regione centro asiatica in una successione di nodi urbani da cui far passare i trasporti e i corridoi energetici, le scelte di Pechino sembrerebbero improntate esclusivamente su uno schema di calcoli costi-benefici, di “geografia funzionale”: “il commercio è il mezzo con cui la Cina genera complementarietà – spiega Khanna nel suo best seller, Connectography – gli investimenti quelli con cui esercita la sua influenza”. Ne conseguirebbe un processo di “remapping inclusivo” in cui “diverse nazioni fanno uso di infrastrutture condivise, accordi doganali, network bancari e reti energetiche”.
Enormi le cifre di questa ridefinizione di una parte della geografia del globo: 65 Paesi già coinvolti, più del 60% della popolazione e del 30% del Pil mondiale, 1.400 progetti già avviati per oltre 40 miliardi di dollari investiti nel periodo 2014-16. “Nel 2030 – prevede KPMG Advisory – i flussi di export tra Italia e i 65 Paesi della Via della Seta potrebbero aumentare di circa 120 miliardi di dollari, semplicemente sfruttando la crescita di questi ultimi”.
Al cuore di questa processo i sei corridoi economici continentali e la via marittima previsti dalla BRI:
- Sul versante terrestre, in particolare, il piano ambisce alla creazione di un “nuovo ponte eurasiatico” e di corridoi economici, caratterizzati dall’insediamento di parchi industriali nelle principali città lungo le direttrici Cina-Mongolia-Russia, Cina-Asia centrale-Asia occidentale e Cina-Indocina.
- In mare progetti concentrati sul consolidamento di rotte regolari, sicure ed efficienti, in grado di alimentare i traffici tra i porti e i territori dell’interno. BRI rappresenterà, soprattutto, un’occasione per sfruttare il potenziale economico dei territori occidentali, finora ai margini delle tradizionali vie commerciali oceaniche che hanno alimentato la crescita economica cinese. I piani infrastrutturali per raggiungere i mercati limitrofi, e da lì proiettarsi verso l’Europa via ferrovia, sono una delle risposte del governo allo sviluppo diseguale del Paese. È il caso, ad esempio, proprio della linea Milano/Mortara-Chengdu o della Chongqing – Xinjiang – Europa, gestita da China Railway Express, società interessata ad aprire un ramo Sud Europa in Italia (Milano, Trieste o Verona le possibili sedi).
La modalità marittima rappresenterà ad ogni modo il principale canale di movimentazione merci sulla direttrice euroasiatica. Sebbene il tasso di crescita per il trasporto ferroviario nel periodo 2016-27 si attesti sul 14,7%, il 90% circa degli scambi avverrà ancora via mare, con una ritrovata centralità del Mediterraneo, favorito dal recente raddoppio del Canale di Suez. Non è un caso che proprio il Mare Nostrum sia al centro del moltiplicarsi della presenza di terminalisti e compagnie di navigazione cinesi sempre più interessate ai suoi porti.
In principio è stata l’acquisizione del 67% dell’Autorità portuale del Pireo, scalo individuato come testa di ponte verso i mercati dell’Europa. Un’operazione complessiva da 1,5 miliardi con l’obiettivo di portare il traffico containerizzato (3,7 milioni di Teu nel 2016) a 10 milioni di Teu entro dieci anni, cui sono seguite una serie di iniziative che hanno messo nel mirino anche Nord Europa (Rotterdam, Anversa, Zeerbrugge, Amburgo) e Golfo Persico (Abu Dhabi). SRM, centro studi impegnato da anni nell’analisi del comparto marittimo e logistico, ha monitorato il fenomeno individuando le due opzioni di questa strategia di penetrazione: acquisizioni delle infrastrutture, con partecipazioni più o meno ampie in terminal e porti; una stretta politica delle alleanze “e quindi delle rotte globali più produttive in termini di business”.
Seguendo questo schema si può tracciare una mappa che abbraccia tutto il bacino mediterraneo: da Haifa, in Israele, scelto come punto di riferimento per il traffico proveniente da Shanghai, ad Ambarli, in Turchia; dalla presenza consolidata in Egitto alla joint venture tra APM Terminals e China Cosco Sipping Ports per la gestione del futuro terminal container di Vado Ligure.
Della questione, e degli effettivi vantaggi per il sistema europeo, si è occupata anche l’Assemblea programmatica di Assoporti che si è riunita la settimana scorsa a Roma.
Paolo Emilio Signorini, presidente dell’AdSP del Mar Ligure Occidentale, ha riconosciuto un concreto rischio legato a tentativi degli investitori stranieri “di acquisire il controllo o di esercitare influenza nelle imprese europee le cui attività hanno ripercussioni sulle tecnologie cruciali, sulle infrastrutture, sui fattori produttivi o sulle informazioni sensibili”. Una criticità che “sorge anche e soprattutto quando gli investitori stranieri sono statali o controllati dallo Stato, anche mediante finanziamenti o altri mezzi”. Sotto questo aspetto le iniziative della BRI potrebbero sortire effetti negativi “in materia di sicurezza del lavoro, ambiente e appalti pubblici” o su questioni centrali come la disciplina antitrust, gli aiuti di stato e la regolazione comunitaria dello shipping. Senza contare la mancanza di una “clausola di reciprocità” che ad oggi impedisce acquisizioni di aziende o di effettuare servizi di cabotaggio nel mercato cinese.
In attesa dell’istituzione di un quadro “che consenta agli Stati membri, e in determinati casi alla Commissione, di controllare gli investimenti esteri diretti nell’Ue” resta per i porti italiani l’esigenza di un adeguamento infrastrutturale in grado di rispondere alle sfide e alle opportunità offerte dalla BRI.
Non solo dragaggi, per rispondere alle sollecitazioni del gigantismo navale, ma un ripensamento complessivo di tutto il sistema logistico nazionale secondo i canoni della multimodalità.
Un’esigenza evidenziata anche da un recente rapporto di Drewry che pone l’accento più che sulla grandezza delle infrastrutture portuali sulla loro capacità di creare connessioni a tutto tondo e confermata dall’ultimo rapporto sull’economia marittima italiana di SRM. “Parlare di sviluppo del commercio marittimo vuol dire attivare meccanismi competitivi tra porti e ricerca, da parte dei Paesi di una logistica sempre più efficiente; è pacifico che la Cina nel Mediterraneo utilizzerà i suoi asset già acquisiti ma i progetti di così ampia portata come quello della Silk Road maturano nel tempo, trovano perfezionamenti in corso d’opera e vanno via via attuando processi di selezione delle idee, delle infrastrutture e delle rotte e non ci si può far trovare inpreparati”.
Basterà questa consapevolezza?