Tra i giovani si diffonde sempre più la dipendenza da lavoro “Workaholism” che – secondo alcuni studi americani- colpisce il 66% dei millennials – Il 70% dei ragazzi si dice disposto lavorare anche nei weekend ed il 39% anche in vacanza.
“Workaholism” o sindrome da dipendenza dal lavoro è il fenomeno che colpisce il 66% dei millennials, secondo uno studio americano pubblicato su Forbes, il dilatarsi del tempo dedicato al lavoro e l’assottigliarsi delle ore di libertà sono diventati temi sempre più critici, soprattutto per la generazione dei millennials, ma alzi la mano chi è completamente indenne dal fenomeno. L’egemonia della tecnologia, la costante ricerca sul web di informazioni e la continua attenzione ai social media sono quelle attività che incontrollabilmente scandiscono le giornate lavorative della maggior parte delle persone.
Tra i così detti millennials americani si delinea poi uno scenario fortemente stressante e negativo, il 66% dei nativi digitali ha ammesso di sentirsi affetto da “workhaolism”, termine coniato nel 1971 dallo psicologo Wayne Oates nel libro “Confessions of a Workhaolic: The Facts about Work Addiction” e che indica “la compulsione o l’incontrollabile necessità di lavorare incessantemente”. Ma non è tutto, dalla ricerca è emerso che il 63% dei millennials ha rivelato di essere produttivo anche in malattia, il 32% di lavorare addirittura in bagno e il 70% di rimanere attivo nel weekend. E ancora, secondo un sondaggio pubblicato sul Washington Examiner, il 39% dei nativi digitali sarebbe disposto a lavorare perfino in vacanza, all’interno di una vera e propria “workcation”.
Ma cosa fare per combattere questa forma di dipendenza? Gli esperti consigliano di perseguire un equilibrio consapevole fra i vari aspetti della vita, trovare un mentore che possa trasferire la propria esperienza e concedersi una pausa costruttiva al termine di ogni giornata lavorativa, ricordandosi che la qualità del benessere psicofisico è insostituibile.
Ma quali sono gli effetti deleteri del workhaolism sulla salute dei ragazzi? Secondo uno studio condotto da Cecilie Andreassen, professoressa di psicologia all’Università di Bergen, e pubblicato su Psychology Today, i sintomi più comuni derivati dalla dipendenza dal lavoro sono depressione, ansia, insonnia e aumento di peso. Pensiero condiviso anche dalla psicoterapeuta Amy Morin, che nel suo bestseller internazionale “13 Things Mentally Strong People Don’t Do” ha evidenziato come il 42% dei millennials che lavorano intensamente più di 9 ore al giorno e rimangono costantemente attaccati allo schermo del pc hanno avuto riscontri negativi sulla propria salute mentale, andando a peggiorare le relazioni sociali con amici, parenti e il proprio partner.
In una ricerca su un campione di oltre 300 donne, Bryan Robinson professore alla University of North Carolina-Charlotte, ha riscontrato che il rischio divorzio è altissimo: solo il 45% dei workaholic riesce ad evitarlo contro l’84% della popolazione. E ancora, Justin Bazan in uno studio pubblicato su Daily Mail ha evidenziato come il 58% dei giovani lavoratori della fascia 18-32 ha accusato forti problemi alla vista a causa del tempo eccessivo trascorso al computer.
Per curare questa forma di dipendenza sono stati addirittura fondati centri terapeutici ad hoc, di cui il più importante ha sede a New York e si chiama “Workaholics Anonymous“. Un esempio drammatico e lampante è rappresentato anche dal fenomeno degli “Hikikomori”, adolescenti perennemente catturati dal web che decidono di non uscire di casa durante l’intero arco della giornata. Trend negativo che si pensava interessasse esclusivamente il Giappone, ma che negli ultimi anni ha interessato anche l’Europa e il Belpaese.
Ma quali sono le principali motivazioni che spingono sempre più giovani a lasciarsi catturare dalla spirale del workhaolism? “La pressione del capo, la paura di non riuscire a fare carriera, il forte desiderio di avere successo dal punto di vista professionale e quindi lavorare sodo per sfondare. Sono numerosi gli stimoli che possono impattare sulla scarsa capacità di mettere un limite ordinato alla propria esistenza – prosegue Marina Osnaghi – La generazione dei millennials dimostra molta più preoccupazione verso il futuro rispetto alla precedente, soprattutto a causa della ricerca dell’indipendenza economica, del desiderio di una famiglia da formare e poi mantenere, e dell’ansia di dover essere più bravi degli altri. Ne consegue che le abitudini di lavoro sono diventate una gabbia in cui perdersi e i confini etici che proteggono la vita privata sono andati via via affievolendosi”.