di Avvocato Walter Lo Bocchiaro
SUEZ – A riprova delle vulnerabilità delle catene di approvvigionamento energetico globali, il Canale di Suez è stato temporaneamente bloccato nelle prime ore del 28 ottobre 2025 dopo che una petroliera sanzionata, parte della misteriosa “flotta oscura” russa, si è arenata lungo uno dei passaggi più strategici della logistica globale.
L’incidente, che ha coinvolto una nave carica di greggio russo e già finita nelle liste nere occidentali, ha bloccato il traffico in direzione nord per diverse ore, interrompendo una delle rotte marittime più trafficate al mondo.
La petroliera era una delle quattro navi inserite nella lista nera di un convoglio diretto in Asia: un dettaglio che evidenzia i crescenti rischi posti da queste navi non regolamentate, libere di aggirare sanzioni, controlli e obblighi di trasparenza.
Le autorità egiziane hanno rapidamente rimesso a galla la nave, ma l’evento ha riacceso il dibattito sul ruolo della flotta oscura (cd. dark fleet) nell’elusione delle sanzioni internazionali e sul potenziale rischio di interruzioni più ampie nei flussi globali di petrolio. E non si tratta, come spesso si tende a pensare, di un semplice incidente tecnico tra i tanti che affollano la cronaca marittima: è il sintomo di una crisi normativa e geopolitica più profonda, che mette a nudo le falle del diritto internazionale di fronte a un fenomeno ormai sistemico.
Non si tratta solo di una nave in panne. La Komander era parte di un convoglio di petroliere opache, gestite da società con sede in giurisdizioni elusive, protette da bandiere di comodo, libere di spegnere il sistema AIS per non farsi tracciare. Il carico? Petrolio russo, probabilmente diretto verso mercati asiatici, aggirando senza troppi problemi quella fitta rete di sanzioni con cui l’Unione Europea e i paesi occidentali avevano pensato di arginare il flusso di risorse verso Mosca.
È fondamentale comprendere che la presenza di una flotta oscura non è una conseguenza accidentaledelle sanzioni, ma una vera e propria strategia deliberata, orchestrata dalla Russia per salvaguardare i propri interessi economici e politici. Lungi dall’essere solo una “furbizia” di operatori privati, il ricorso al dark fleet è diventato un asse centrale delle nuove rotte energetiche globali, una risposta adattiva capace di sfruttare ogni piega e ogni ambiguità del diritto marittimo internazionale.
Ma perché proprio il diritto, oggi, appare il vero sconfitto?
La vicenda della Komander offre almeno tre piani di lettura, tutti intrecciati e segnati da un inquietante senso di inadeguatezza normativa. Il primo riguarda l’efficacia delle sanzioni internazionali. L’obiettivo delle restrizioni UE, USA e G7 era chiaro: limitare il flusso di risorse verso la Russia,
colpendone la capacità di finanziamento della guerra e influenzandone la politica energetica. Eppure, l’esistenza stessa della flotta oscura dimostra quanto queste misure, per quanto complesse e articolate, trovino il loro tallone d’Achille nella concreta attuazione e nel monitoraggio. Nel momento in cui
compagnie di bandiera compiacenti e assicuratori extra-occidentali permettono la circolazione indisturbata di carichi “proibiti”, le sanzioni rischiano di essere percepite più come un ostacolo amministrativo che come un reale deterrente.
Il secondo piano riguarda la natura della responsabilità in mare.
Le norme internazionali, a partire dalla Convenzione di Montego Bay (UNCLOS), attribuiscono agli Stati di bandiera il compito di garantire che le navi registrate operino in sicurezza e nel rispetto delle regole internazionali. Tuttavia, la proliferazione delle cosiddette “bandiere di comodo”, spesso concesse in cambio di un mero contributo economico, consente a operatori poco trasparenti di aggirare controlli e sanzioni. Così, navi vetuste, a rischio di incidenti o di fuoriuscite di greggio, continuano a solcare mari strategici come il Mediterraneo e il Mar Rosso, forti della protezione giuridica – o meglio, della sostanziale indifferenza – degli Stati che dovrebbero vigilare su di loro. Il caso Komander, arenata in una delle arterie vitali del commercio mondiale, rende tangibile la minaccia: cosa sarebbe successo se l’incidente avesse comportato una fuoriuscita massiccia di petrolio? Chi sarebbe stato chiamato a rispondere dei danni, e con quali strumenti concreti?
Un terzo livello di riflessione riguarda la capacità degli Stati costieri e delle autorità portuali di reagire alle sfide di questa nuova era.
Le normative IMO impongono l’uso di sistemi di identificazione e tracciamento, la tenuta di registri trasparenti e il rispetto di standard minimi di sicurezza. Ma la realtà, specie nei punti di strozzatura come Suez, è che l’enforcement di queste regole è spesso lacunoso. Gli ispettori possono controllare documenti apparentemente regolari, senza avere alcun reale potere di indagare sulle proprietà effettive, sulla storia recente della nave, sulle manipolazioni dei transponder o sui recenti cambi di bandiera e di nome. In caso di incidente, ci si scontra quasi sempre con una giungla di società offshore, assicuratori sconosciuti e titolari effettivi difficili da rintracciare.
E qui il paradosso si fa lampante: la stessa architettura giuridica che ha reso possibile la globalizzazione dei traffici marittimi oggi permette anche una “globalizzazione delle irresponsabilità”. Navi come la Komander navigano in un limbo regolamentare in cui la libertà di navigazione, pensata per
promuovere il commercio e la cooperazione, si trasforma in scudo per pratiche elusive, pericolose, persino criminali. Questo crea un corto circuito normativo dove la trasparenza e la certezza del diritto cedono il passo all’opacità e all’inerzia.
Il fenomeno della flotta oscura, tuttavia, non si esaurisce in una sfida normativa o tecnica: è il sintomo di un equilibrio geopolitico e giuridico che si è rotto. Dietro ogni nave “ombra” c’è un gioco di specchi tra Stati che, per ragioni economiche o politiche, scelgono la tolleranza o addirittura la complicità. Il diritto internazionale, così, è chiamato a confrontarsi non solo con la prassi elusiva dei privati, ma anche con la volontà (o la mancanza di volontà) politica dei governi. Le reazioni all’incidente della Komander – rapide, superficiali, con l’operatività ripristinata in poche ore – rivelano un sistema che si accontenta di soluzioni tampone, senza affrontare la questione alla radice: chi controlla davvero le navi che trasportano il petrolio del mondo?
Il vero rischio, oggi, è che la “flotta oscura” diventi la regola, non più l’eccezione. Le nuove rotte dell’energia globale, disegnate sulle carte dalla necessità di aggirare sanzioni e blocchi, sono popolate da navi che si nascondono dietro un velo di legalità apparente. Questo non solo erode la credibilità delle istituzioni internazionali, ma espone il pianeta a rischi economici e ambientali senza precedenti: un singolo incidente in un punto strategico come Suez o Gibilterra può avere ricadute immediate sui prezzi energetici, sulla sicurezza dei traffici e sulla stabilità di interi paesi. Un rischio concreto per l’Italia: vulnerabilità, approvvigionamento e credibilità Per l’Italia – ponte naturale del Mediterraneo e snodo essenziale delle vie energetiche tra Africa, Medio Oriente e Nord Europa – il fenomeno della flotta oscura rappresenta una minaccia duplice.
Da un lato,c’è il rischio concreto che greggio trasportato da navi non regolamentate, potenzialmente prive dei necessari standard di sicurezza e assicurazione, possa raggiungere indirettamente i porti italiani o transitare nelle nostre acque. Questo espone il Paese non solo a rischi ambientali – pensiamo a una possibile fuoriuscita di petrolio nel Canale di Sicilia o davanti a Genova – ma anche a potenziali controversie legali e danni reputazionali se dovesse emergere un coinvolgimento, anche inconsapevole, nelle filiere “ombra”.
Dall’altro lato, il ricorso strutturale al dark fleet indebolisce la posizione dell’Italia e dell’Europa nelle trattative internazionali, compromettendo l’efficacia delle politiche di sicurezza energetica e la stessa credibilità del sistema normativo europeo.
Ogni nave oscura che elude controlli e sanzioni, infatti, alimenta una spirale di sfiducia verso la reale capacità delle istituzioni di governare i fenomeni globali: e se domani un incidente maggiore dovesse coinvolgere porti, raffinerie o impianti italiani, il Paese si troverebbe a pagare un prezzo altissimo, non solo economico, ma anche politico e sociale.
La Komander, arenata nel cuore pulsante del commercio mondiale, rappresenta dunque un punto di non ritorno: la prova tangibile che la flotta oscura non è solo una risposta opportunistica alle sanzioni, ma un nuovo paradigma di navigazione “parallela”, organizzata e sostenuta da reti di interesse che superano i confini nazionali e le regole codificate. In questa cornice, se il diritto internazionale vuole recuperare il proprio ruolo, non basteranno aggiustamenti marginali o ennesimi protocolli d’intesa: servirà una vera governance multilivello, fondata sulla trasparenza reale delle proprietà navali, su strumenti di tracciabilità effettivi, su responsabilità condivise e – soprattutto – sulla volontà politica di rompere l’inerzia e affrontare i nodi di sistema.
Solo così sarà possibile evitare che, domani, un altro Komander – o qualcosa di peggio – blocchi di nuovo il cuore pulsante del commercio mondiale, ricordandoci che, se il diritto non saprà navigare con la stessa agilità della flotta oscura, il rischio sarà non solo quello di un nuovo incidente, ma di una perdita irreversibile di fiducia nella capacità della comunità internazionale di governare davvero i mari del XXI secolo.













